avvocato1Il Tribunale di Caltanissetta ha scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare tre imputati dell’inchiesta “Uragano” condotta dai carabinieri di Caltanissetta e dalla Dda nei confronti di presunti esponenti del clan di Cosa nostra del Vallone. Oggi hanno lasciato il carcere Salvatore Amico, 37 anni, Giuseppe Tona, 45, e Giuseppe Cammarata, 31 anni, tutti di Milena, già condannati in primo grado per associazione mafiosa ed estorsioni. Ai primi due il Tribunale nisseno ha inflitto 16 anni di reclusione, a Cammarata 17 anni. I tre erano stati arrestati a dicembre 2005. Secondo la Dda e i carabinieri gli indagati sarebbero stati affiliati al clan mafioso di Milena e avrebbero estorto denaro all’imprenditore agricolo Paolino Diliberto che ha poi denunciato le richieste di pizzo andate avanti per diverso tempo. L’uomo aveva raccolto e accantonato il grano quasi al confine con i terreni di Salvatore Mattina, uno degli arrestati. Ma qualcuno gli incendiò il raccolto così l’imprenditore aveva richiamato Mattina per quanto era accaduto. L’imprenditore venne avvicinato da alcuni componenti della famiglia Mattina e dai fratelli Giuseppe e Gioacchino Cammarata, anch’essi indagati, che lo avrebbero schiaffeggiato e costretto a seguirli a casa del boss. Quindi, davanti al presunto mafioso, l’imprenditore fu minacciato con una pistola alla tempia, costretto a inginocchiarsi e a chiedere scusa per il suo atteggiamento poco rispettoso. Un atteggiamento di arroganza, come lo ha definito il sostituto procuratore Antonino Patti, che serviva per intimidire le vittime designate. Secondo l’accusa, infatti, la frangia separatista del clan di Francesco Randazzo inviava «pizzini» ai commercianti di Milena, Campofranco e Montedoro con minacce di morte anche per i loro familiari e la richiesta di pagamento di somme elevate, tra i 50 mila e i 60 mila euro. Quindi le stesse vittime venivano avvicinate per strada e minacciate di morte, poi seguivano i danneggiamenti: colpi di fucile esplosi contro le auto o le vetrine dei negozi. Secondo la procura nissena le vittime non hanno mai pagato il «pizzo» imposto perchè gli indagati avevano avuto sentore di un’inchiesta a loro carico.