Riceviamo e integralmente pubblichiamo una lettera inviataci da un nostro lettore sulla condizione sociale ed economica a Canicattì:
Egregio Direttore,
prendo spunto dal dibattito che si è aperto in questi giorni sull’ipotesi di trasferimento del Tribunale rappresentatoci, da alcuni commentatori, come una causa del prevedibile aggravarsi della crisi economica nella nostra città.
Peccato che gli strumenti e le conoscenze a mia disposizione mi consentono soltanto di essere fotografo di una crisi che da un po’ di tempo, con inesorabile progressione, sta colpendo la nostra città. Auguriamoci che qualcuno, più bravo di me, possa fare anche una puntuale diagnosi e, meglio ancora, se riuscisse ad indicarci la terapia.
Sintomatologia, diagnostica e terapia sono i tre momenti della malattia: dalla scoperta dei suoi sintomi sino alla sua cura. Non è simpatico, ma il riferimento alla malattia dell’uomo in questo caso è quanto mai puntuale.
La nostra è una città che in buona parte, negli anni sessanta e settanta, è cresciuta e si è sviluppata sulla debolezza. Non si scandalizzi nessuno se mi permetto di affermare che è stata la debolezza di una ricchezza concentrata nelle mani di non molti, di una ricchezza che probabilmente non era reale oppure è stata orientata verso la realizzazione dei totem del progresso: in primis l’edilizia della seconda e terza casa, della villa in campagna. Di quella classe imprenditoriale (anni ’60 e ’70, ma anche inizio anni ottanta), è rimasta poca cosa.
Hanno chiuso battenti le imprese che assorbivano molta manodopera, sono state ammainate molte bandiere dell’imprenditoria locale che sino a quel momento tutta la città giustamente sventolava con orgoglio. Molte di quelle imprese probabilmente sono cadute travolte da un eccessivo squilibrio finanziario, da una decrescente domanda del mercato di riferimento e da una crescente lievitazione dei costi di produzione. Le imprese di oggi, tranne alcune splendide eccezioni, hanno avuto, se non proprio i natali, ma almeno il maggiore sviluppo dagli anni ottanta in avanti. Solo poche sono quelle che resistono sulla ribalta da ancor prima degli anni ottanta.
Il mercato allora era debole poiché esso non si misura soltanto con la prosperità di una piccola area, quale allora era la nostra città, ma si misura con il bacino territoriale di riferimento in cui la nostra imprenditoria si muoveva. Intorno a noi la povertà allora, come oggi, purtroppo era elemento preminente rispetto alla ricchezza. Insomma, la nostra imprenditoria non aveva un buon mercato cui rivolgersi e, quindi, non poteva contare su una adeguata “domanda”.
Di quegli anni ci è rimasta un’edilizia sproporzionata al nostro fabbisogno. Credo che oggi esista a Canicattì un rapporto sproporzionato tra numero di abitazioni e fabbisogno effettivo. Ciò è oggi motivo di ulteriore sacrificio economico a causa dei balzelli fiscali che i proprietari sono tenuti a pagare senza trarne alcun vantaggio economico.
A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, venivano inoltre vendute tre delle quattro banche locali che sino ad allora riuscivano a dare positive risposte alle domanda di lavoro. Avevano, insieme, circa duecento sportelli sparsi per tutto il territorio regionale, circa mille dipendenti prevalentemente provenienti dalla nostra città e dall’hinterland ove erano maggiormente radicate e capillarmente diffuse. E’ sbagliato pensare che la loro chiusura sia stata soltanto causata dalla concretezza di un guadagno per i propri soci, essa deve essere vista quale necessaria operazione poiché l’evoluzione del sistema bancario siciliano ha, negli anni successivi, dimostrato la fragilità di quel mondo bancario che operava in una realtà economica, quella siciliana, dove forse oltre il cinquanta per cento dei soldi che venivano prestati alla clientela non venivano mai restituiti. E’ semplicistico dire che la Banca ha una funzione sociale. Essa è “impresa”, come tante altre, con le proprie esigenze di bilancio, con l’obbligo di restituire alla propria clientela depositante i risparmi ad essa affidati. Ma se l’”impresa banca” non può con certezza contare sull’integrale recupero dei danari che presta ai clienti, è facile che entri in crisi. A tal proposito, ci siamo mai chiesto perché gli istituti di credito con sede in Sicilia negli anni 80 ammontavano a circa 110 ed oggi sono, credo, meno di una quarantina, quasi tutte banche cooperative? Ci siamo mai chiesto perché Banco di Sicilia, Cassa Centrale di Risparmio, Banca Sicula, Banca del Sud – per citare soltanto le più importanti – oggi non ci sono più?
Torniamo a Canicattì. Dove la vecchia classe imprenditoriale non c’è più, ma, cosa più grave, non c’è più quella diffusa classe borghese che si era messa a coltivare vigne. Era la classe dei liberi professionisti, degli impiegati, dei commercianti, degli artigiani che si erano messi a fare gli agricoltori. Costoro pagavano bene gli operai e ne assumevano forse un po’ più del necessario (era il prezzo pagato anche dall’inesperienza). Ciò avveniva perchè il reddito dalla campagna per loro era “integrazione”, a differenza dell’agricoltore “a titolo principale” per il quale il reddito agrario era ed è la principale, se non esclusiva, fonte di guadagno e, pertanto, l’imprenditore agricolo doveva e deve contenere quanto più può il costo di produzione.
Temo che una delle concause della crisi, soprattutto nel settore dell’agricoltura, sia proprio la scomparsa di una diffusa classe di agricoltori-borghesi che immetteva sul mercato una notevole quantità di prodotto vendibile lordo ripartendo il prezzo incassato in maniera più generosa a favore dei braccianti.
E’ ovvio che vi sono tante altre cause alla base della crisi economica della nostra città. Però credo che molte di esse possano essere ricondotte alle generali cause che stanno mettendo in ginocchio l’Italia. E, non dobbiamo dimenticarlo, anche la preoccupazione e il timore, non sempre fondati, sono essi stessi causa dell’accentuarsi delle crisi. Quanta gente, infatti, pur guadagnando come prima o anche più di prima, oggi contiene esageratamente la propria propensione alla spesa? Ecco perché è importante infondere ottimismo. Io penso che anche le “cassandre”, generando panico, non sempre motivato, hanno contribuito a scoraggiare anche chi non aveva motivo per scoraggiarsi ma tuttavia si è, comunque, tenuto lontano dai mercati molto più di quanto qualsiasi ragionevole prudenza gli avrebbe consigliato, pur essendo evidente che la crisi c’è ed è grave. Ma non vi è crisi maggiore della mancanza di velocità nella circolazione del danaro. La crisi americana degli anni venti docet.
Per non parlare della nostra pericolosa tendenza all’esterofilia. I prodotti stranieri ci sembrano migliori di quelli nazionali. Forse in alcuni casi è anche vero. Ma oggi bisognerebbe superare anche queste valutazioni qualitative e “comprare italiano” anche se compriamo qualcosa di livello meno buono. Le faccio un esempio: se io compro un bene che costa quindicimila-ventimila euro e quel bene è marcato straniero, io ho spedito fuori dall’Italia almeno l’80% del danaro pagato per avere quel prodotto. Se moltiplichiamo questi importi per il numero delle persone che conosciamo e che hanno comprato da fabbriche estere le medesime cose prodotte da fabbriche italiane, vedremo quante volte abbiamo favorito il “nemico” senza accorgercene.
Il Tribunale? Ma come facciamo a non accorgerci che non è possibile trattenerlo qui da noi? Come facciamo a non comprendere che il problema è di più ampia portata rispetto all’angusta ipotesi di “soluzione in casa”?
Non so dire altro, tranne di confessare che non ho avuto e non ho alcuna pretesa di dire cose esatte. Ma sono convinto che anche le micro realtà vanno esaminate e viste soprattutto con gli occhi di chi le vive, con semplicità perché la storia dell’economia è anche quella di ogni giorno, è la sommatoria delle storie di ciascuno di noi, di ciascuno dei piccoli e grandi centri urbani che compongono l’Italia.
Ora si faccia avanti uno che analizzi la mi “fotografia” e ci indichi una buona terapia.
Cordialità
P.S.
Per cortesia, evitiamo, però, di cadere nella mediocrità della critica. Lasciamo stare fuori Sindaco, Giunta e consiglieri comunali di maggioranza e di opposizione. Loro proprio non c’entrano nulla.