“Chi guarda nello specchio dell’acqua vede
per prima cosa, è vero, la propria immagine.
Chi và verso se stesso rischia l’incontro con se stesso.
Lo specchio non lusinga; mostra fedelmente
quel che in lui si riflette, e cioè quel volto che non mostriamo
perché lo veliamo per mezzo della persona,
la maschera dell’attore.”
Gli archetipi dell’inconscio collettivo, C. G. Jung
L’uomo si appresta a divenire un Super uomo”: l’avanzamento tecnologico e burocratico ne ha modificato i rapporti, la visione globale, immettendolo come nucleo minimo di un sistema strutturale altamente complesso. Il paradossale dislivello che ne scaturito, la necessità della aprioristica proiezione in avanti, stride con l’esigenza di voltarsi, dare analisi e riflessione a quello che è, è stato e diverrà. La profonda decadenza dei simboli soggiace, come una nebbia fitta, sul divenire dell’uomo. Un uomo alienato che si vede e si mostra come entità economica che distratto non volge orecchio a quel che il tempo vuole dirci. Camminiamo un luogo sentiero costellato di incertezze e paure, dubbi che ognor più focalizzano il nostro sguardo su esigenze assopite ma mai spente. Queste esigenze ricorrono nel ridare i segni dell’uomo all’uomo stesso, nel concedere all’individuo il suo essere più profondo. Una civiltà che non riconosce i suoi simboli rischia di perdersi nel baratro nell’indeterminatezza fattuale, di un sciovinismo che sfocia nella nevrosi collettiva. Come non si può credere che il nazismo nasca e si formi dalla decadenza dei segni propri della civiltà. Rivedere il passo cadenzato risuonare terrificante per le strade, le legioni romane rinascere, rappresentano il ricostituirsi di una nevrosi che ha coinvolto milioni di persone. Siamo così pieni di paure da non vedere quanto i simboli del tempo ci appartengano, siano parte integrante della nostra persona e della nostra esperienza interiore. I simboli del cristianesimo hanno deluso il compito di permanere saldi e hanno perso col tempo il loro valore intrinseco. Da questo perdersi sono sorti i segni dell’autoritarismo, la svastica e i fasci littori riproposti a velare un identità dittatoriale e criminogena. Segni muti ma che una guerra ha reso indelebili espressioni della follia umana. Guardiamo con sguardo sfiduciato il futuro perché non sappiamo riconoscere nel passato la nostra identità. La storia è parte della nostra mente ci identifica, ci da volto come maschera costruita nei secoli. I miti non sono semplici allegorie dovute al pensiero ozioso ma costituiscono essi stessi la vita psichica della civiltà che si disgrega e tramonta al perdersi di questi attributi vitali.
La mitologia di una tribù è la sua religione viva e la perdita di questa è sempre e dovunque , anche presso l’uomo incivilito, una catastrofe morale
Lo spirito primitivo non costituisce soltanto i miti ma li vive. I simboli mitologici rappresentano la base del concepirsi e del concepire esternamente ciò che ci circonda. Ma cos’è il simbolo? Che cos’è il mito? Che cos’è l’archetipo? Concetti che sono assorti pian piano a nostra familiarità di cui vi è una lunga letteratura scientifica. Un Kalathos ci si appronta dove le foglie lanceolate e morbide straboccano dagli angoli perdendosi su, in alto, in esuberanti volute che fuoriescono dall’orlo della cesta, ripiegandosi dolcemente, osservate da un piccolo fiore d’abaco. Un immagine viva che bene rende l’idea della pluralità delle argomentazioni e dei costrutti. Qui parleremo di simboli, archetipi e monumenti, accenneremo brevemente al loro rapporto con l’inconscio collettivo per tornare saldamente a riflettere sulle cause prime dell’esperienza sensibile. Come un nastro dell’elice si costruirà il nostro discorso nei mitologemi antichi e moderni in una visione teogonica puramente accessoria che ci permetterà di comprendere le matrici prime dell’opera. La letteratura per questo campo è molteplice, per quanto ci riguarda Andrea Carandini ha inaugurato questo filone simbiotico di studi in Archeologia del mito (2002) e in Remo e Romolo (2006). Ma lo studio del mito ha origini ben più lontane e da Gian Battista Vico a Schelling, da Leibniz a Kerenyi segue una lunga, articolata sequela di riflessioni e prese di coscienza. Nei sui anni di Jena, il giovane Schelling s’interessa alla letteratura mitologica cogliendo nel mito la divergenza delle due forme religiose che si scindono in un monoteismo della ragione e un politeismo dell’immaginazione. In Uber Mythen avviene una scissione metodica tra storia del mito e filosofia del mito. Nel primo caso, lo studio analitico-critico o filologico del mito alla ricerca di un dato evento storico risulta parziale riproponendosi ognor più nel perdersi in un campo vuoto. Nel secondo, l’importanza vichiana del mito riemerge, caricandosi della preservazione della tradizione mnemonica che è resa sacra associandosi al culto ancestrale. Si dà così voce ad una piattaforma comune di civilizzazione e tradizionalismo volta alla preservazione delle peculiarità culturali di una data società. Oltre al mito noi considereremo il simbolo e l’archetipo. Il primo si predispone per questa riflessione onto-teo -storica. .” La casa della divinità è presente nel simbolo” ed è lo stesso che in sistema semantico organico produce la funzione mistico-religiosa. Ma come definire il concetto di simbolo? Questo risulta essere un contenitore vuoto che tende a riempirsi di un interpretazione arbitraria. A e B in una lettura simbolico possono caricarsi dello stesso sincronismo identificativo sviando dal platonico principio d’identita. A non è inevitabilmente uguale ad A, non è un unione di una unità con se stessa, ma si carica, mescolandosi, ad un altro – in questo caso – ente (B). Avviene così il perdersi dell’attributo “con se stessa”, del risaldare identificativo, in favore di una visione puramente interpretativa. Nel testo biblico vetero testamentario l’utilizzo di questo termine è riscontrabile in Os 13,2 il cui significato è ascrivibile alla parola “legno”o per meglio chiarire a “il legno”. Agli idoli lignei – gli xoana – infatti, era riservata nella tradizione antica una venerazione particolare anche dopo l’utilizzo dei blocchi marmorei per la fabbricazione dell’iconografia sacra. Inoltre, è bene prendere coscienza che i ritrovamenti archeologici forniscono per questi una forte connotazione a contesti silvo-pastorali.Nel rituale di iniziazione di carattere ereditario degli sciamani Samoiedi siberiani alla morte del padre il figlio modella in legno uno xoana della mano di questi e per mezzo di tale simbolo acquista la trasmissione delle capacità magico-religiose. Inoltre, parallelo a maggiore chiarezza in Luca 23, 29-31 questa lettura simbolica riecheggia nelle parole di Gesù sulla via della Crocifissione, egli si esprime come segue ” Ecco, verranno i giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: ” Cadete su di noi!”, e alle colline: ” Copriteci!”. Perchè, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?”. Gli archetipi sono intrinsecamente legati al concetto di inconscio collettivo. Per Freud l’inconscio facente parte della psiche umana era un contenitore di idee rimosse. Questo modo di vedere le cose predispone per l’inconscio un carattere meramente personale ma che lo stesso autore de l’interpretazione dei sogni ammette essere sensibile al pensiero mistico-mitologico. È merito di C. G. Jung quello di aver scoperto una parte più profonda della psiche umana con quelle che Adler definiva rappresentazioni collettive:
“Al di là dei contenuti personali troviamo nell’inconscio anche le caratteristiche che non sono state acquisite individualmente, bensì ereditate, cioè gli istinti intesi come impulsi ad attività che procedono, senza motivazione conscia, da una costrizione interiore. A questi si aggiungono le forme esistenti a priori, ossia congenite, dell’intuizione, cioè gli archetipo di percezione e comprensione, che sono una condizione ineliminabile e determinante a priori di tutti i processi psichici. Come gli istinti inducono l’uomo ad un comportamento specificatamente umano, così gli archetipi costringono la percezione e l’intuizione a formazioni specificatamente umane”
La scissione psichica ci dà conoscenza della presenza effettiva di residui arcaici, innati e non creati dall’intelletto, la cui acquisizione risulta presente già dallo stato fetale: l’ “inconscio collettivo” – così ci è trasmesso – rappresenta una serie di engrammi psichici che sono la trasmissione delle acquisizioni ancestrali e che si mutano in parametri spontanei di comportamento e/o reazione – gli archetipi.
“Questi archetipi, la cui intima essenza è inaccessibile all’esperienza, rappresentano il precipitato del funzionamento della psiche nella serie degli antenati, cioè dell’esistenza organica in generale, accumulatasi attraverso milioni di ripetizioni e condensatasi in tipi. In questi archetipi sono perciò rappresentate tutte le esperienze che si sono succedute su questo pianeta dall’inizio dei tempi; ed esse appaiono in forma tanto più chiara quanto più sono state frequenti e intense”
L’espressione archetipo si trova già in Filone Giudeo come immagine del Dio. In Hermetica Dio è chiamato “la luce archetipica” mentre nel De diversis quaestionibus vi è espresso: “Idee originarie…che non sono state create..che sono contenute nell’intelligenza divina” Nello stesso modo è usato dagli alchimisti, come nel tractatus aureus di Trismegito, dove si legge “come Dio [ che porta ]l’interno tesoro della sua divinità…nascosto in sé come nell’archetipo…in quel modo stesso Saturno che occultamente porta in sé le immagini dei corpi metallici..”. Così pure in Ireneo ( Adversus hereses II 7.5): “..il creatore del mondo non fece queste cose a partire da se stesso, ma le trasse da archetipi estranei..”. Nel Daode jing di Laozi: “Il Tao è indistinto e indeterminato, e nel suo seno racchiude l’Uno, che traccia i contorni e presiede le trasformazioni, da origine al qi e stabilisce gli archetipi”. Con il suo “Il mito dell’eterno ritorno” Mircea Eliade getta le basi per una visione di rinnovamento del riemergere archetipico, del riproporsi dell’Essere da Se e per Se. Congiungendosi al pieno solco della percezione romantica del rapporto Natura-uomo l’antropologo focalizza la sua analisi al rimando all’armonia primordiale nella sua forma ontostorica. Il Kalathos ricolmo e florido è ora più chiaro, nel suo seno nasconde quella confusione soave che ne distingue le parti, le analizza pian piano riscontrandovi i frammenti di un quadro profondo e articolato, un po’ evanescente ma reso compatto dalla vista dell’osservatore. Dipingiamo su quella tela i nostri simboli, la nostra traccia mnestica più profonda. Nella presentazione de la “Fenomenologia dello spirito di Hegel” di Martin Heidegger, il curatore dell’opera – a firma di Eugenio Mazzarella – riporta: ” Nello spazio dell’alienazione storica dello spirito, il sapere è l’operare del Sè, un insearsi come produzione di inconsapevolezza dello spirito umano come ragione inconscia che mentre così si aliena da Sè consegna però la traccia genetica di questo movimento alla memoria” ed ancora “mentre sprofonda nella notte dell’autocoscienza costituisce in questo sprofondarsi stesso una traccia di Sè come traccia mnestica che è il filo di Arianna del suo ritrovarsi, del suo ri-generarsi spirituale, la sua specifica fune di ritorno della sostanza alienata dello spirito nella storia”. Il sapere incarna l’insearsi dello Spirito proprio perchè è “la fune di ritorno della sostanza alienata dello spirito nella storia”. In parole semplici tutto sprofonda nell’oblio del ricordo, nella fantasia. L’uomo e la sua fantasia è l’uomo col suo inconscio. Simboli e Mito così espressi rivestono un valore unisono in un armonia che cambia di battuta risultando dolce all’orecchio di chi ne ode le parti. Accordiamo quindi gli strumenti e volgendo il nostro sguardo concentriamoci sull’armonia, che sia più fluida e intonata possibile. Intoniamo una melodia atemporale a cui, per mera ipotesi di lavoro, abbiamo dovuto tracciare dei limiti cronologici. In realtà lo studio dei mitologemi si installa in un origine ignota che si perde in passato che fa impallidire non solo i tempi degli sciamani siberiani o delle saghe indiche ma bensì anche la stessa civiltà greca. Ma parleremo anche di opere architettoniche per tale motivo si incardina la disquisizione su uno spettro cognitivo che và dalla Dark Age ellenistica fin alla Roma del Principato – come si avrà modo di vedere per il culto di Vesta e per il santuario di Sant’Omobono. . Ciò che abbiamo enunciato con tanta solerzia introduce a noi una funzione che si equipara come prole primigenia delle immagini dell’inconscio a cui si danno costrutti basilari ben definiti che chiamiamo riti:
“Il rito consiste in una sequenza prestabilita di atti, parole formule che, collegate con una qualche credenza, è ritenuta, da parte di chi la compie, capace di agire sul corso degli eventi, siano questi di natura mondana o soprannaturale”
Il mago, colui che è in possesso delle conoscenze adeguate a tale scopo diventa agl’occhi della comunità un uomo dotato di poteri eccezionali. Le tradizionali attribuzioni ancestrali a personaggi eroici o divini da parte delle case regnanti nel periodo classico sono l’enuciazione fattuale dell’emergere archetipico in senso di legittimazione del potere. Questo engramma ha luogo in connessione diretto con il culto riservato agli antenati. È bene sottolineare che il primo concetto si attesta attraverso uno sviluppo psico-somatico che si incardina proprio sull’aspetto psichico per una differenziazione razionalizzante che lo esimi dagli agenti silvo-pastorali. L’uomo che lentamente progredisce fisiologicamente per divenire “homus” subisce un primo traumatico scisma psichico che lo conduce ad una nuova concezione di quello che lo circonda. Un secondo traumatico evento nella storia dell’uomo deve essere costituito dalla scoperta del fuoco. Questi due elementi, infatti, permangono evidentemente come latenti nell’inconscio: la rottura degli Aurea Templa ritornano ciclicamente nella storia e il fuoco conserva nell’immaginario la sua matrice divinizzata. Esiste la necessità di concepire, per comprendere a pieno questa disanima, come la costituzione di un modus societatis deve rimpinguarsi con le relazioni agli oscuri stimoli di questa parte remota della psiche umana ancor più se si volge ad una base arcaica e superstiziosa e se si considera la necessità di gerarchizzazione sociale. Il simbolo, il mito e il rito esprimono, con diverse metologie e diverse peculiarità, costrutti della realtà ultima delle cose. Un qualsiasi oggetto o struttuta non ha un valore intrinseco proprio ma gli viene conferito dalla congezione religiosa che si ha dell’oggetto. Uno xona, per esempio, è un pezzo di legno che, come da suddetto, acquista un significato e un valore reale se associato metaforicamente al Cristo (Occidente) o se è modellato dalla mano di uno sciamano defunto (Siberiani). Anche una pietra, resistente e durevole, esente dal tempo, rappresenta tutto quello che non è l’uomo. Così questa perviene al termine preziosa acquistata dalle connotazioni magico-religiose. La pietra dove dimora l’anima degli antenati ( India, Polinesia ) o la pietra che un preciso rituale ha consacrato ( bethilos dedicato ad Apollo ). Il reale valore si ottiene quindi dalle attribuzioni che vengono conferite all’oggetto o alla struttura architettonica. Il tempio, come vedremo, ha una sua funzione magico-religiosa dacché l’atto di residere in quel complesso architettonico è proitettato ab origine cioè in un passato mitico ove vi risiedeva un dio o più propriamente un eroe, un antenato divinizzato. Una sintesi indù riassume l’essenza di tutti i rituali ovunque presenti che si differenziano nelle particolarità strutturali ma che mantengono un medesimo filo conduttore:
“Così hanno fatto gli dei, così fanno gli uomini” (Taittiriya Brahmana 1,5,9,4 )
Gli aborigeni del sud-est dell’Australia, per esempio, praticano la circoncisione poichè questo è l’insegnamento degli antenati. Rapporti di significato vi sono presso gli ebrei che praticano la circoncisione per precetto divino custodito nella Torah. Presso i Sakhalaves del Madagascar le pratiche usuali della vita comunitaria devono essere filtrate attraverso la lilin-draza cioè l’insegnamento ereditato dagli antenati. L’antico modo di vedere dei romani non si dissocia dal filtro della mores maiorum in modo del tutto comune alla paideia greca. Leggi non scritte ereditate dagli antenati, dunque, che stanno alla base della prassi rituale.
Francesco Rotondo