Tra le dimore patrizie del Settecento quella meglio conservata a Canicattì è il Palazzo che il barone don Marco La Lomia Testasecca si fece costruire tra il 1750 e il 1770. Il palazzo occupa gran parte dell’isolato compreso tra via Cattaneo, piazza Dante, corso Garibaldi (l’antica via di li Putieddi che prese nome proprio dalle botteghe baronali) e via Manara. La restante parte dell’isolato è costituita dal palazzo del cavaliere Marco la Lomia, anch’esso del XVIII secolo.
Il Palazzo era la residenza del barone in carica mentre ai suoi familiari venivano assegnate altre dimore che i La Lomia possedevano in città: gli attuali palazzi Gallo (nel corso Garibaldi), Di Prima (in piazza Dante), Nicosia (tra corso Garibaldi e via Palestro) e soprattutto il palazzo Sammarco di piazza IV Novembre e via Ruggero Settimo. E proprio in quest’ultimo palazzo nacque, il 30 gennaio 1905, il più famoso dei La Lomia, il barone Agostino, alias Fausto di Renda, che nell’abitazione di via Cattaneo poté trasferirsi soltanto nel 1927 allorché il padre Salvatore ereditò il titolo di barone di Renda, barone di Carbuscia e Torrazze, signore di Giantonnina e quello di abate laico dell’Abbazia di Giacchetto.
Marco La Lomia Testasecca il cinque luglio 1754 aveva ottenuto in enfiteusi la tenuta della Dammisotta di Giacchetto, utilizzata fino ad allora come luogo di villeggiatura dalle monache benedettine cassinesi della Badia Grande del SS. Salvatore di Naro. La cessione era stata propiziata dall’intervento dell’abbadessa Maria Agata Cannizzaro pressol’arcivescovo di Palermo Marcello Papiniano Cusani, che allora, durante la sede vacante, svolgeva la funzione di viceré.
Il Palazzo di via Cattaneo fu costruito, attorno ad un atrio interno, con pietra di Donato, così chiamata dalla contrada in territorio di Naro da cui veniva estratta, una pietra assai vulnerabile da parte degli agenti atmosferici ma particolarmente bella allorché illuminata dai raggi dorati del sole. L’edificio, sormontato in gran parte da pinnacoli che ne esaltano la prospettiva, lo slancio e l’imponenza, è inserito nello splendido contesto barocco circostante di cui fanno parte la chiesa e il convento di S. Domenico realizzati tra il 1609 e il 1612.
Al Palazzo si accede da via Cattaneo attraverso un portale che, collegato al sovrastante balcone, forma un’unica struttura figurativa, la cosiddetta tribuna, sormontata dallo stemma di famiglia (uno scudo con cinque limoni). Meno importante il portone d’ingresso su via Manara che in passato veniva utilizzato soprattutto dalla servitù. L’atrio di ingresso assolveva anche alla funzione di luogo di sosta al coperto per le carrozze. I prospetti sulle vie Cattaneo, Garibaldi e Manara sono arricchiti da massicci balconi ornati da splendide ringhiere barocche; le finestre sono racchiuse, come in uno scrigno dorato, da cornici in pietra che ne esaltano la bellezza. Il prospetto intendeva esplicare plasticamente il prestigio della famiglia mentre l’uso generalizzato dei balconi, al posto di semplici finestre, indicava la preferenza da parte dei La Lomia per rapporti sociali da vivere unitamente agli abitanti del popoloso quartiere.
Al piano terra erano allocate le strutture destinate alla manutenzione dell’edificio e delle carrozze e alla conservazione delle derrate alimentari. Esistono tuttora ben conservati due ambienti ricavati sotto il pavimento che venivano utilizzati come granai. Sempre al piano terra sulla corte si affacciavano delle stalle; a sinistra del vano scala si trovava un ufficio ove i contadini si recavano per pagare le tasse e comprare le varie derrate.
Nel primo piano si trovano un vestibolo, un’anticamera, il salone di ricevimento, il salone da ballo, la sala pranzo, la biblioteca, la stanza da letto con ricco baldacchino; nella sala di ingresso esisteva un tempo un armadio-cappella ove su un altare erano collocate le foto degli antenati; davanti all’altare un inginocchiatoio con pregevoli intarsi e, in alto, uno splendido quadro della Madonna di Custonaci. Notevole la grandezza dimensionale dei vari ambienti sia come superficie sia come altezza. Di grande pregio le porte interne in legno arricchite da preziosi intarsi, gli affreschi, gli stucchi e le mensole che adornano le varie stanze.
Salvatore La Lomia morì nel 1928, appena un anno dopo il riconoscimento dei suoi titoli nobiliari; divenne quindi barone Agostino che fece del Palazzo di via Cattaneo e della Villa di Giacchetto, per decenni, il centro della vita mondana della città. Scapolo impenitente, Agostino La Lomia trascorreva le sue giornate circondato dalla devozione della sua famiglia: gli autisti Antonio Giangreco e Luigi Giordano, il cocchiere Francesco Cappadona meglio conosciuto come Pignatuni, il portinaio e servitore Carmelo Maira, la custode Luigia Di Rocco, le criate Francesca Gennuso di Montedoro ed Emisia, la governante toscana dei nipoti Annamaria e Salvatore. Ma il principale collaboratore era Alberto Testasecca, un nobile decaduto che si guadagnava da vivere facendo il governante e il cuoco e andando in giro per la spesa e per riscuotere gli affitti delle varie case dei La Lomia.
Agostino La Lomia amava circondarsi di tutta la famiglia quando riceveva i suoi ospiti. Un appuntamento fisso era quello con gli studenti universitari che, nell’annuale festa della matricola, si recavano al Palazzo per la raccolta dei fondi. Il barone li intratteneva amabilmente offrendo del buon vino: al termine faceva cadere dei soldi nel vaso da notte regolarmente usato e scrostato che gli universitari usavano per la questua.
A Palazzo La Lomia fu ospitato nel 1947 il mafioso italo-americano Lucky Luciano che ricambiava in tal modo la visita che il barone gli aveva reso in America. A Palazzo La Lomia il 23 aprile 1949 sedettero a pranzo l’arcivescovo di Palermo, cardinale Ernesto Ruffini, altri sei vescovi e numerosi esponenti politici giunti in città per la posa della prima pietra dell’Orfanotrofio Maschile “Maria Bonsangue”. Dal Palazzo di via Cattaneo si snodava ogni anno un corteo di macchine sportive ed eleganti carrozze che raggiungeva Villa Giacchetto per la celebrazione della festa di primavera.
Ma il barone amava soprattutto girare per il mondo partecipando agli eventi mondani e culturali come la Mostra del cinema di Venezia ed il Festival cinematografico di Messina-Taormina. Per il suo modo di vestire particolarmente eccentrico e per le sue esilaranti interviste, Agostino La Lomia era sempre al centro delle cronache mondane su tutti i quotidiani e periodici.
Ma la vita gaudente e spensierata di Agostino La Lomia sarebbe stata sconvolta da una vicenda legata alla vendita forzata del prestigioso palazzo che possedeva a Palermo in piazza Castelnuovo e che era stato costruito tra il 1830 e il 1840 su disegno dell’architetto Tommaso Aloisio Juvara. L’atto di vendita fu stipulato a Palermo il 5 ottobre 1961. Il barone l’indomani tornò a Canicattì e per sette lunghi anni rimase prigioniero volontario all’interno del Palazzo di via Cattaneo: non riceveva gli amici, non rispondeva alle lettere che però raccoglieva con cura, non rispondeva al telefono. Non uscì di casa nemmeno il 26 gennaio 1967 per i funerali del suo amico padre Paolo Meli, il parroco della vicina S. Domenico, morto il giorno prima, l’unico che in quegli anni terribili poteva accedere ogni sera alla sua casa.
Agostino La Lomia rimase segregato nel Palazzo di via Cattaneo fino alle cinque del mattino di sabato 15 luglio del 1967 allorché improvvisamente decise di andare a pregare sulla tomba della madre al cimitero. Vi tornò nel pomeriggio del successivo 22 ottobre per l’inaugurazione ufficiale della propria tomba conclusa con la consumazione, tipica della tradizione contadina, di mandorle e pane accompagnati da vino rosso locale. Alla morte il barone pensava ormai in maniera ossessiva: “La vera casa è la nostra tomba, alla quale chi non ha figli come me dovrebbe provvedere. Con la mentalità e lo stile del siculo proverbio che dice: Lu tistamentu si fa quannu si mangianu li maccarruna o quannu si mangia carni di porcu e cioè con gioia e serenità, godendo di questa vita, come dono di Dio”.
Fausto di Renda (era questo lo pseudonimo con cui il barone amava firmare i suoi numerosi articoli su fatti della cronaca e della storia siciliana) era rimasto certamente turbato dalla narrazione di un suicidio che si era consumato all’interno del suo Palazzo. Il 25 maggio del 1839, alle ore 15, Federico La Lomia, sconvolto per la decisione del padre Agostino La Lomia Le Chiavi di trasmettere al secondogenito Salvatore, che nel 1848 avrebbe rappresentato Canicattì nel Parlamento Siciliano, il titolo di barone, si tolse la vita “nella stanza dell’alcova dentro le mura del Palazzo avito che non sarebbe mai stato suo”. (Fausto di Renda, Vecchie storie siciliane – Fatale Privilegio, in Documentario della Regione Siciliana, n. 7, Arti Grafiche Pezzino, senza data).
Agostino La Lomia impartì precise disposizioni per le sue esequie. Vi avrebbero partecipato 42 becchini provenienti da tutta Europa ed in particolare il becchino del “cimitero della felicità” di Lisbona; 500 sarebbero stati gli invitati tra preti, monache, orfanelli, accattoni e concittadini; le marce funebri, in particolare quella di Chopin, sarebbero state eseguite dalle bande musicali di Acireale e Canicattì. Al termine del funerale ai presenti sarebbero stati serviti su vassoi d’argento dei gelati; ai forestieri sarebbe stato assicurato un congruo rimorso spese; furono predisposti anche gli inviti con la sola incombenza, per i familiari, di aggiungere a mano la data della morte.
Agostino La Lomia morì il 20 gennaio 1978 nella casa di riposo “Villa Serena” di Gravina di Catania. I funerali furono celebrati nella sua S. Domenico a Canicattì l’indomani alle ore 15. La realtà fu assai diversa da quanto programmato: alle esequie parteciparono soltanto una cinquantina di persone in un pomeriggio particolarmente uggioso e triste.; fu rispettata soltanto una delle disposizioni del defunto e così nella bara furono collocati quaranta sacchetti di terra provenienti da ciascuno dei feudi dei La Lomia.
Unico erede di Agostino rimase il fratello Giuseppe di cui non si era mai fidatoal punto di farlo dichiarare inabilitato. Giuseppe dalla moglie Concetta Caramazza aveva avuto due figli: Anna Maria morta di tifo a 11 anni il 19 agosto 1944 e Salvatore che lo zio voleva come suo unico erede. Salvatore però morì scapolo a 32 anni il 16 dicembre 1978 e pertanto tutti i beni tornarono nella disponibilità del cavaliere Giuseppe. Questi, rimasto vedovo nel 1974, sposò dopo la morte del fratello e del figlio la signora Elise Crista Boschel, originaria di Dresda, allora nella Germania Est, venuta a Canicattì in cerca di lavoro. La signora Boschel, alla morte del marito avvenuta l’8 novembre del 1983, ereditò il Palazzo baronale, la Villa di Giacchetto e tutti gli altri beni dei La Lomia.
Andato a vuoto per difficoltà burocratiche un tentativo di acquisizione da parte del Comune di Canicattì, il Palazzo in data 19 novembre 1986 fu venduto dalla signora Boschel al professor Emanuele Giardina che ha proceduto a pochi restauri dal momento che il Palazzo è pervenuto in suo possesso in ottime condizioni. Dopo il restauro risulta assai elegante, pur nella sua sobrietà, lo scalone di accesso al primo piano; per la scala, in origine realizzata con pietra serena, una pietra grigia come la lava ma dolce, si è resa necessaria una nova sistemazione con marmi pregiati. Sono stati restaurati in particolare i magazzini a piano terra ed i granai sottostanti. Il Palazzo è oggi fruibile da parte di tutti i cittadini per mostre e incontri a carattere culturale che trovano in esso una splendida cornice. GAETANO AUGELLO