Nella “battaglia” tra Napolitano e la Procura di Palermo si passa ai fatti: è stato depositato alla Corte Costituzionale il ricorso predisposto dall’Avvocatura dello Stato a nome della Presidenza della Repubblica che ha sollevato conflitto di attribuzione contro i pm palermitani. La vicenda è quella delle intercettazioni telefoniche disposte dai pm che indagano sulla presunta trattativa Stato-mafia, sull’utenza di uno degli imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.

Secondo l’accusa, Mancino avrebbe fatto pressioni e manifestato preoccupazioni per la sua posizione nell’inchiesta. Le sue telefonate sono arrivate anche al Colle: a Loris D’Ambrosio, consulente giuridico del Quirinale morto pochi giorni fa. E, in almeno un’occasione, allo stesso Giorgio Napolitano. Telefonate intercettate in via indiretta, perchè l’utenza di Mancino era stata messa sotto controllo. E se il contenuto delle conversazioni Mancino-Napolitano non è noto, la notizia dei colloqui tra i due è finita sui giornali, aprendo mille polemiche e un conflitto di fronte alla Consulta promosso dal Capo dello Stato che ha ritenuto lese le sue prerogative. Nel ricorso predisposto dall’Avvocatura dello Stato si ritiene innanzitutto violato l’art. 90 della Costituzione, in base al quale il Capo dello Stato non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.

C’è poi da considerare la legge 219 del 1989 che all’articolo 7 stabilisce che nei confronti del Presidente della Repubblica non possono essere eseguite intercettazioni se non dopo che la Consulta lo abbia sospeso dalla carica. Questa legge non distingue tra intercettazioni dirette e indirette: ma l’intenzione del legislatore – secondo vari giuristi – era di vietare tout court che il Capo dello Stato fosse intercettato.

Un altro presupposto normativo che potrebbe pesare è dato dall’articolo 271 del codice di procedura penale, che stabilisce i casi in cui le intercettazioni non possono essere utilizzate: per esempio quelle tra confessore e confessato o tra avvocato e indagato – per citare alcuni esempi – “quando hanno a oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione”. In questi casi il giudice dispone la distruzione delle intercettazioni, “salvo che costituisca corpo del reato”. Per il Presidente della Repubblica, solo alto tradimento o attentato alla Costituzione: ma in casi di questo genere, le intercettazioni vanno trasmesse alle Camere.

Ci si può chiedere quindi – e presumibilmente se lo è chiesto anche l’Avvocatura dello Stato – se per le conversazioni di un Presidente della Repubblica, seppure captate in via indiretta, possano valere garanzie minori rispetto a quelle fissate dall’articolo 271 del codice di procedura penale per un avvocato o un confessore. O, su un altro piano, tutele minori di quelle garantite a un parlamentare indagato, per il quale serve il via libera della Camera d’appartenenza.

La tesi della Procura di Palermo poggia, invece, sull’articolo 268 del codice di procedura penale, secondo cui il gip dispone l’acquisizione delle intercettazioni che “non appaiano manifestamente irrilevanti” e, “procedendo anche d’ufficio”, decide lo stralcio del materiale di cui è vietato l’utilizzo tramite la cosiddetta “udienza filtro”, a cui pm e difensori hanno il diritto di partecipare.

Questo però, se applicato alle conversazioni di Napolitano, mette in campo una serie di implicazioni: una valutazione di rilevanza applicata alle parole del Capo dello Stato, la possibilità che il contenuto delle intercettazioni possa essere reso pubblico, e ancora l’ipotesi che il giudice possa ritenere rilevanti le conversazioni intercettate e non ne disponga la distruzione.

L’interrogativo di fondo, in sostanza, è uno: si può utilizzare l’intercettazione, anche indiretta, del Capo dello Stato, come una qualsiasi altra intercettazione? C’è chi ritiene che, se così fosse, verrebbe violato anche il principio di uguaglianza, che come ha stabilito la stessa Corte Costituzionale, prevede l’applicazione di un criterio di ragionevolezza, per cui le stesse disposizioni di legge devono essere adeguate o congruenti alle finalità della legge.

Ora la parola passa alla Consulta, che dovrà in primo luogo stabilire se il ricorso è ammissibile o meno. Al momento non ci sono udienze pubbliche fino a metà settembre e quasi certamente nulla verrà deciso prima di quella data. Quanto alla Procura di Palermo, può decidere di non costituirsi in giudizio, di difendersi personalmente attraverso il procuratore Francesco Messineo assistito dai suoi sostituti, o di affidare la difesa a un legale.