Smaltire in discarica una tonnellata di rifiuti costa 138 euro a Trapani e meno della metà, 60 euro, a Siculiana. A Palermo lo smaltimento costa 127 euro, mentre i Comuni che utilizzano la struttura di Sciacca versano solo 91 euro. Anche per queste tariffe il debito degli Ato ha toccato il record di un miliardo e 400 milioni. Mentre con un comunicato la Belice Ambiente spa in Liquidazione specifica che “il costo di conferimento degli RSU presso la discarica di Contrada Campana-Misiddi sita a Campobello di Mazara è di euro 92,62 a tonnellata al netto del tributo speciale e dell’IVA; invece comprensiva di tributo speciale e dell’Iva, il costo è pari a euro 107, 746”.
Quella delle tariffe per lo smaltimento è una giungla su cui sta facendo luce l’Osservatorio sui rifiuti e la riforma appena approvata all’Ars proverà a fare ordine. La legge messa a punto dall’assessore Nicolò Marino, magistrato scelto da Crocetta, prevede due novità: il trasferimento delle competenze per autorizzare l’apertura di una discarica dall’assessorato all’Ambiente a quello all’Energia e la determinazione di una tariffa di riferimento regionale a cui tutti gli impianti dovranno adeguarsi.
Il dibattito sulla gestione delle discariche nelle ultime votazioni all’Ars ha mandato in secondo piano quello sull’evasione record della Tarsu, che impedisce ai Comuni di finanziare gli Ato che a loro volta poi non pagano nè le imprese che si occupano della raccolta nè i gestori delle discariche generando così nuovo debito. In particolare il centrodestra – dal Pdl a Musumeci – ma anche formazioni di centrosinistra hanno chiesto il ritorno alla gestione pubblica degli impianti. «Eppure – rileva Maurizio Pirillo, capo di gabinetto dell’assessorato ai Rifiuti – proprio nelle discariche pubbliche, da Palermo a Trapani, si pagano le tariffe più elevate mentre i gestori privati hanno le tariffe più basse. Allucinante». A Gela, altra struttura pubblica, scaricare costa 100 euro a tonnellata, e a Castellana 125 euro. Il finanziamento pubblico avviene per lo più con fondi europei «e serve – precisa ancora Pirillo – unicamente a mantenere la discarica. Mentre i privati fanno piani tariffari tarati sull’investimento iniziale per allestire gli impianti». La gestione pubblica è affidata a società partecipate, come l’Amia a Palermo, e anche il suolo è pubblico mentre la gestione privata è tale perchè del tutto in mano a imprenditori del settore (è il caso di Siculiana e Lentini).
Le tariffe, spiegano ancora all’assessorato ai Rifiuti, sono determinate al momento di concedere l’autorizzazione di apertura all’impianto e tengono conto di vari costi: «Se una discarica – aggiunge Pirillo – oltre allo smaltimento fa anche la separazione o la distruzione del rifiuto, il costo aumenta». Molti impianti, i meno moderni, hanno bisogno di finanziamenti pubblici per recuperare il percolato: a Bellolampo, per esempio, i fondi pubblici servono per realizzare la sesta vasca. «Il problema – precisa Pirillo – è che nessuno ha mai verificato se questi servizi vengono realmente svolti e con quali costi reali».
L’assessorato all’Ambiente non era d’accordo a perdere le competenze sulle autorizzazioni alle discariche. Ma l’assessore Marino ha insistito per unire le pratiche per le autorizzazioni alle verifiche. Tutto ciò dovrebbe permettere di determinare un prezzo unico: Marino anticipa che «stiamo per emettere una circolare che fisserà una tariffa minima e massima entro cui tutti decono muoversi. Anche perchè non sappiamo se oggi il prezzo indicato nelle autorizzazioni è poi quello realmente applicato». C’è il rischio di limitare il libero mercato, visto che i privati hanno puntato su tariffe più basse e impianti più moderni. «Ogni discarica – sintetizza Pirillo – dovrà avere un piano tariffario che tenga conto delle distanze che i camion devono percorrere per portare i rifiuti dalle città all’impianto». Nell’attesa che la riforma venga attuata la Regione ha già fallito uno dei target fissati nella precedente riforma: la raccolta differenziata doveva arrivare al 40% alla fine del 2012 mentre non ha superato il 7%. Per questi ritardi le discariche si stanno velocemente esaurendo e Marino anticipa che «per fronteggiare l’emergenza stiamo prevedendo un aumento delle discariche pubbliche nel numero e nella portata».
In Sicilia una delle criticità più evidenti riguarda, ormai da tempo, lo smaltimento dei rifiuti. Spesso cataste di spazzatura ricoprono le nostre strade. Nella provincia di Palermo (Ato1), ancora fino a poche ore fa, si registravano giganteschi accumuli.
Quella dei servizi locali è una delle aree a gestione pubblica più problematiche perchè riguarda attività essenziali come l’acqua, i trasporti o la cura dei cimiteri e perché dalle modalità di resa dipende la stessa qualità della vita degli abitanti, per tacere degli effetti sulle imprese, del danno di immagine per il territorio e dell’impatto talora devastante sui conti pubblici. Periodicamente nel dibattito si riaffaccia, senza grandi successi, la necessità di una maggiore efficienza gestionale. Eppure i tentativi di intervenire, anche di recente, non sono mancati. La materia resta però fluida, specie dopo una recente sentenza della Corte Costituzionale. Può essere quindi utile tratteggiare, almeno per grandi linee, lo «stato dell’arte».
I circa 8 mila comuni esistenti in Italia hanno il controllo di 3.804 società di capitale che svolgono le attività più diverse; di queste, circa 1.100 si occupano di rifiuti, acqua, gas, energia elettrica, illuminazione stradale, aree a verde e servizi cimiteriali. Sono i cosiddetti servizi pubblici locali. Per avere un’idea della dimensione del fenomeno, basti considerare che vi lavorano 81 mila persone, con un fatturato annuo che si attesta attorno ai 16 miliardi di euro. Per quanto possa sembrare strano, queste società, tutte insieme, hanno prodotto nel 2010 un utile di circa 1,5 miliardi di euro. Negli ultimi tre anni soltanto il 6% di queste società è risultato costantemente in perdita.
Nonostante le cifre aggregate forniscano un quadro tutto sommato confortante, nei servizi pubblici locali si registrano però situazioni tra loro molto diverse. Nelle società quotate – che si occupano come ricordato di rifiuti, acqua, gas, energia elettrica, illuminazione pubblica, aree a verde e servizi cimiteriali – il costo del personale incide appena per il 19% della gestione, mentre in quelle controllate dai comuni il personale pesa per il 38%. Ecco allora che quando si parla di public utility, di ex municipalizzate o di servizi pubblici locali; quando si parla di liberalizzazioni o di privatizzazioni, in realtà si fa riferimento – senza distinzioni – ad un ampio ed eterogeneo raggruppamento di società che generano utili (più spesso al Nord) o scavano voragini nei conti dei comuni di riferimento (più spesso al Sud), che sono gestite come aziende (più spesso al Nord) o si qualificano come una sorta di ammortizzatore sociale, buono a creare improduttivi posti di lavoro (più spesso al Sud).
Il referendum sull’acqua pubblica, del giugno 2011, aveva abolito la norma che introduceva per la prima volta un principio generale: i servizi pubblici devono essere affidati per gara e non più direttamente dai comuni. Il successivo intervento del governo Berlusconi, dell’agosto del 2011, nel tentativo di colmare il vuoto legislativo, ha finito però con il riproporre l’articolo abrogato. Si è trattato, scrive La Voce, di «una decisione improvvida e sprovveduta» sulla quale però anche il Governo Monti ha costruito i suoi interventi; con il risultato finale che «gli ultimi cinque anni di tentativi di riforma del settore sono stati cancellati insieme agli sforzi, generosi ma tecnicamente molto discutibili, del governo Monti». Ma qual è ora il quadro dopo il colpo d’accetta della Corte Costituzionale? Qualche cosa sopravvive.
Intanto, resta in piedi il principio generale secondo il quale i comuni devono affidare, di norma, i servizi locali con gara ad evidenza pubblica e solo eccezionalmente possono procedere all’affidamento diretto, ad esempio, a favore di società sotto il loro diretto controllo. Peraltro in questo ambito può intervenire anche l’Autorità Antitrust. Ovviamente tutto ora dipende dalle scelte che vorranno fare i comuni. Certo la riforma dei servizi pubblici locali appare non più rinviabile ed addirittura inevitabile.
Le urgenze della finanza pubblica rendono infatti appetibili i servizi locali nella logica della loro dismissione, quando si tratta di attività lucrative. Per altro verso, ma coincidente, le stesse emergenze di finanza pubblica inducono a considerare, con urgente attenzione, la dismissione dei servizi pubblici anche quando, invece, generano pesanti perdite per il bilancio dei comuni controllanti. In questo senso persino coloro che hanno votato al referendum a favore del mantenimento dell’acqua nell’orbita pubblica – principio poi esteso dalla Corte Costituzionale anche agli altri servizi pubblici – potrebbero apprezzare una cessione ai privati, rigorosa e controllata, delle società di servizio pubblico, nella consapevolezza che arroccarsi nella difesa strenua del’indifendibile possa pregiudicare definitivamente l’accesso alla strada dell’efficienza e del rigore dei conti pubblici.
Non dimentichiamo infatti che una famiglia siciliana, tanto per fare un esempio, sopporta un tributo per il ritiro e lo smaltimento dei rifiuti circa quattro volte più pesante di una famiglia veneta che vive invece una situazione igienico-ambientale di gran lunga migliore e che, per ulteriore paradosso, ha un reddito superiore del 40%. E questo per tacere come le inefficienze della gestione pubblica, dalla sanità ai servizi locali, ci scarichino addosso anche pesantissime addizionali Irpef ed Irap.
GdS